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QUINDI MEGLIO SCRIVERE SU UN GIORNALE DI MERDA
9 luglio 2024 - un articolo a cura di @palace09045
Le parole hanno un peso, specialmente se scritte. 
E da quando Gutenberg ebbe una certa idea, le parole non hanno mai smesso di circolare. 

Nell’età industriale i periodici, inizialmente riservati a piccole cerchie intellettuali, si trovarono gradualmente a soddisfare il crescente bisogno d’informazione dei ceti in corso di alfabetizzazione, trovando la forma prediletta nel quotidiano giornale anche grazie ai progressi tecnologici. 

Fiumi e fiumi di rotocalchi ruggivano per una nuova platea, desiderosa di sapere che avesse detto quel leader, chi fosse il responsabile del crimine efferato o quanti licenziamenti avrebbe visto quell’industria e perché no, anche di essere intrattenuti. 

Come primo mass media per eccellenza, la carta stampata ha avuto immensa influenza soprattutto per le incarnazioni giornalistiche, sulle quali si è poi calibrata anche la “stampa” radiofonica, televisiva e digitale. Una spaventosa ubiquità che non è nuova, ma cementata nei decenni e sostenuta da imponenti colossi del settore: e questo è utile a ricordare che pure il giornalismo è, prima di tutto, un business.
Immancabilmente il cinema ha colpito a più riprese l’ipocrisia dei media manipolatori e delle figure amorali che guidano il mercato, trattando anche del loro impatto drammatico sulla società. Quasi un Quarto Potere, che travalica l’interesse ad informare e persegue disegni personali aggirando limiti quasi inesistenti, finendo per assumere dei connotati mostruosi proprio come il Kane di Orson Welles. E a legare i 6 film che seguono è proprio il morboso rapporto tra i mostri e i giornalisti che apparentemente li raccontano, ma non di rado finiscono per incarnarli loro stessi.
Diritto di cronaca (1981)
Opera non maggiore per il veterano Sidney Pollack, rilevante però nel racconto di un certo giornalismo che non è asservito a logiche di potere, ma complice di essere.

Paul Newman è Michael, la cui unica colpa è venire da una famiglia di criminali: quando scopre dal giornale di essere sospettato per un omicidio mai commesso, si rivolge alla reporter che ha diffuso lo scoop (Sally Field) senza ricevere spiegazioni. La verità è che un agente federale (Bob Babalan) trasmette al quotidiano falsità su Michael, con l’obiettivo di farlo crollare per ottenere informazioni sui suoi parenti. Un intrigo fitto che coinvolgerà tutti per distruggere solo chi non l’avrebbe mai meritato.

L’idea che forze corrotte e giornalisti senza scrupoli collaborino inquieta di suo, ma che risultato ha su delle vite modeste una macchinazione così estesa e perfida?

Richard Jewell (2019)
Questa è la tematica centrale della più recente pellicola del mitico Clint Eastwood, ispiratosi a una storia vera per seguire il trope dei piccoli eroi quotidiani, a lui caro.

Richard (Paul Walter Hauser) è un reietto bonaccione che vive ancora con la madre e il cui unico sogno è essere un agente di polizia, ma rimbalza tra piccoli mestieri di sicurezza: tutto cambia quando, di guardia a un concerto, trova un ordigno pronto ad esplodere e salva decine di vite. Ma in assenza di bombaroli colpevoli l’aura eroica di Richard viene meno, e presto i sospetti delle istituzioni verranno cavalcati da una stampa scandalistica intenzionata solo a trovare il mostro del momento a tutti i costi.

Caduta ogni deontologia, il giornalismo vede la sua utilità solo nell’alzare gli share: e cos’è meglio del trovare un mostro pronto all'uso e consumo dello spettatore medio?
Mad City (1997)


Un dilemma centrale nel lungometraggio del maestro Costa-Gavras che, pur tra i suoi meno riusciti, segue il leitmotiv delle vittime dei potenti sotto una luce diversa.

Sam (John Travolta) era il custode del museo, ma dopo essere stato licenziato per mancanza di fondi sequestra il direttore e una scolaresca in visita. In un’assurda coincidenza il giornalista decaduto Max Brackett (Dustin Hoffman) si ritrova come intermediario nella trattativa fra Sam e il mondo, e grazie a un’inaspettata escalation Max ritroverà la gloria nello sfruttamento della tragedia di un uomo ora divenuto bestia: ma se lui avrà ripensamenti, al resto della stampa non interesserà per nulla.

In un gioco di ruoli fuori dal controllo dei partecipanti stessi, solo una certezza resta: più efferato viene dipinto il nemico, più profittevole è il business dell’odio mediatico.







Sbatti il mostro in prima pagina (1972)







Questo passaggio viene esplicitato già dal titolo nella pellicola di Marco Bellocchio, girata nel contesto degli Anni di Piombo e della complicità tra media e regime.

Il Giornale è uno dei quotidiani più letti dai conservatori italiani, e il direttore Bizanti (Gian Maria Volontè) si dà un gran da fare perché continui ad esserlo, manipolando le notizie anche personalmente. Quando una ragazzina viene stuprata e uccisa il direttore sfrutta la situazione, usando l’opinione pubblica a vantaggio dei finanziatori e additando come colpevole uno studente innocente. Tutto sembra filare, ma l’onesto redattore Roveda (Fabio Garrida) intuisce che c’è in atto un depistaggio.

Tra cospirazioni in uffici e disordini per strada, la domanda dello scabroso s’intreccia con la furia benpensante: chi è però il mostro tra cronisti amorali e presunti criminali?

Nightcrawler (2014)
Nel suo esordio alla regia Dan Gilroy trascina una y2k icon quale Jake Gyllenhal in un agghiacciante noir notturno in cui i ruoli si scambiano del tutto, senza redenzioni.

Gyllenhal è infatti Lou, uno psicopatico che vive di espedienti nella Los Angeles più sporca che si possa pensare: ed è in mezzo alle sue strade che il ragazzo scopre il valore dei report di cronaca nera, per cui le emittenti locali buttano quattrini. Gonfio di retorica sigma-male e assistito da uno “stagista” (Riz Ahmed), Lou varca le porte della notte alla ricerca di sangue e crea connessioni grazie ai disastri di cui è testimone e forse anche complice, come lo sciacallo peggiore che possa esistere.

In una sovversione di parti, emerge una chiara risposta alla domanda precedente: un mercato che vuole solo l’orrore e l’attenzione del pubblico calza perfetto a un mostro.

La Dictatura Perfecta (2014)
Ma i giornalisti disumani spesso hanno dei veri e propri clienti, parimenti mostruosi: ed è questo il fulcro del film di Luis Estrada, non estraneo alla denuncia sociale.

Dopo l’ennesima gaffe l'impopolare presidente messicano ingaggia una grossa rete del paese per spostare l’attenzione verso un politico corrotto del suo stesso partito (Damian Alcazar): quest’ultimo però negozia con l’azienda stessa per ripulire la sua immagine, ricevendo il supporto di un produttore e un reporter (Alfonso Herrera, Osvaldo Benavides). E in una spirale di manipolazione e violenza, i servi del potere scopriranno che la paga è misera e la accetteranno, pur di tenere vivo un sistema.

La denuncia dei mass media sembra una lotta contro i mulini a vento, ma dietro ogni giornalista deviato che ricerca e indugia sull’ennesimo mostro che verrà poi scartato, si nasconderà sempre la mano di interessi più grandi, impegnata a distrarci da altro.