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Sterminare ogni pensiero razionale
L'incubo di essere artisti in 6 film - 10 maggio 2024
Il cinema ha rivoluzionato i modelli narrativi dell'intera società. 
E non solo nel raccontare ciò che è altro, ma anche nel raccontare l'umanità stessa.

Finiti gli spaventi confezionati dai Lumière e i prestigi elaborati di Méliès, la settima arte ritrovò la dimensione spettacolare nella capacità delle pellicole di complimentare ed esaltare le grandi storie. Dalle prime epopee d'avventura fino ai kolossal mitizzanti, operatori e spettatori concorrevano in maniere diverse alla volontà di raccontare la storia, recente o antica, e imprimere anche nella neonata arte i preziosi archetipi dell'era corrente. 

Ma così come la letteratura ebbe da affrontare secoli (e non pochi oscuri) di aulica e arida narrativa di stampo classico, prima di approdare alle moderne forme di sovversione dei topos, anche il cinema non poté che trascorrere decenni dedicati a successi dalla semplicità oggi disarmante. 

Solo traumi collettivi come quello della Seconda Guerra Mondiale e dell'Olocausto portarono al risveglio degli autori, decisi a piantarla con il cinema disimpegnato e pronti a cambiare rotta. Non tutti però erano della stessa idea: il neorealismo intendeva raccontare la miseria post-bellica, la nouvelle vague invece l'assurdità della borghesia ipocrita, e ancora il cinema politico americano con la denuncia dei poteri forti. 

Proprio nell'Italia dell'epoca era però attivo un regista, tanto osannato quanto incompreso, che farà della racconto del sé artistico un tema fondamentale: Federico Fellini, il cui avatar Marcello Mastroianni avrà modo di dargli un volto nel capolavoro semiautobiografico Otto e Mezzo. La meta-narrazione del film segue infatti un particolare momento di crisi creativa del maestro, a cui né l'amore nuziale o clandestino, né la fede sapranno dare risposta. 

È questo kunstlerroman il germoglio seminale e inconsapevole di un filone cinematografico peculiare, incentrato non solo sull'autore in difficoltà, ma soprattutto sulle sue ansie, costrizioni e opposizioni interiori o esteriori, reali o surreali. 
Dunque, quello che è il vero e proprio incubo di essere artisti
Quelli che seguono sono sei lungometraggi sparsi tra diverse epoche, esempi di narrazione nella narrazione, il cui filo comunicante è la sensazione di orrore che sorge innanzi a un foglio bianco, o ancor peggio, a metà della composizione. 
UN TRANQUILLO POSTO DI CAMPAGNA (1968)
Non poteva che essere un visionario dalla consapevolezza straordinaria come Elio Petri il regista che, non casualmente nel pieno delle lotte del 1968, realizza un lavoro spesso considerato minore rispetto ai progetti successivi, eppure di un certo valore. 

Qui, Franco Nero interpreta un pittore immerso in un periodo improduttivo, attanagliato da incubi ricorrenti dove sogna di essere ucciso dalla fidanzata-manager (una glaciale Vanessa Redgrave): tenta così di ritrovare l'ispirazione spostandosi a vivere in una magione isolata nella bassa Padana, dove maturerà invece un'ossessione morbosa per la contessina che vi abitava, misteriosamente uccisa anni prima. 

Il film è così un'allegoria della sofferenza che accompagna non solo solo il vuoto creativo, ma anche le turbinanti esplosioni di ispirazione, i cui risultati vengono prontamente sfruttati per profitto da un'industria rapace e incurante della persona che si cela dietro ogni artista. 

BARTON FINK (1991)
Pochi registi possiedono una versatilità stilistica come quella di Joel & Ethan Cohen, e ancora meno hanno avuto periodi d’oro come quello dei due fratelli tra gli anni Ottanta e i Novanta, coincidente con i processi di reflusso politico neo-liberale.

E nel 1991, dopo oltre dieci anni dietro la cinepresa, possono dire di averne avuto abbastanza degli avvoltoi da studios, ladri di sogni scritti da altri. Ma la denuncia corre su binari assurdisti à la Lynch, nel racconto di Barton Fink (John Turturro): appassionato quanto sconnesso intellettuale di sinistra, si trova a disagio con i film di second’ordine che Hollywood gli chiede dopo il successo delle sue opere teatrali idealiste, desiderando ancora un impegno sociale. La società da lui descritta si scontrerà però con il vero orrore, ossia la società reale.

Seppure l’industria sia rappresentata come inaffidabile e gestita da ricchi idioti, nel mirino dei Cohen qui è l’artista stesso, talmente incensato dalle sue glorificazioni dell’uomo comune da non rendersi conto di cosa realmente stia facendo e pensando, questo uomo comune.
SYNECHDOCHE, NEW YORK (2008)


Charlie Kaufman è più un programma che un nome, una penna che ha firmato gioielli visivi capaci di disorientare lo spettatore ancor prima che sorprenderlo. Se si parla di meta-narrazione, lo scettro non può che andare a lui.

Dopo aver affrontato da sceneggiatore la crisi artistica (tra tutti Adaptation, del 2002), nel 2008 Kaufman assume anche le vesti di regista per dirigere un incubo febbrile. Philip Seymour Hoffman interpreta Caden Cotard, un tormentato autore che riceve finalmente un enorme contributo economico per realizzare la più grande opera mai scritta, più grande della vita. Ma come la salute di Caden oscilla tra malattia e ipocondria, l’equilibrio tra realtà e finzione diventa sempre più labile all’interno del distopico e immenso set da lui ideato.

Che gli artisti abbiano un certo ego di per sé non è una novità, ma poche pellicole mostrano così immersivamente come troppe ambizioni consumino sia l’artista da dentro, che tutta la società circostante: la ricerca di ciò che è “più vero del vero” è un germe capace di eliminare ogni purezza. 







INLAND EMPIRE (2006)







Citato precedentemente senza grosse formalità proprio per la sua statura, David Lynch non ha bisogno di grosse presentazioni, soprattutto perché non necessita spiegazioni. Si tenga a mente ciò affrontando quello che è l’ultimo film del regista, prima del suo ritiro.

Come raccontare un film che inizia con una ragazza che piange guardando una sitcom recitata da conigli antropomorfi, assolutamente non divertente e anzi inquietante? Si assiste qui a un “film nel film”, che è il livello narrativo almeno iniziale, prima che tutto si complichi. Laura Dern interpreta l’attrice Nikki Grace, a sua volta ingaggiata per recitare il tragico ruolo di Sue, personaggio apparentemente fittizio nel quale Nikki rimane rinchiusa, in un confronto tra la sua identità originale e i drammi segreti ed irrisolti della sua controparte di celluloide.

Non ne voglia Lynch stesso, notoriamente astioso verso ogni interpretazione, ma punto focale del film è la capacità come pure il rischio per l’artista di saper creare un mondo a sé, esistente a prescindere da quello reale, e proprio per questo capace di divorare il resto e finendo per sovrapporre un personaggio all’artista, anche una volta spenti i fari di scena.


THE HOUSE THAT JACK BUILT (2018)
Controverso, sgradevole, semplicemente detestabile ma anche un genio. Probabilmente molti descriverebbero con almeno uno di questi termini Lars Von Trier, che dagli albori nella corrente Dogma95 alla rivalutazione che se ne fa oggi, ha sempre saputo spiazzare tutti.

E anche se può non sembrare, è in questo lungometraggio con protagonista Matt Dillon che il regista si interroga sull’impatto della sua arte nel mondo. L’insospettabile Jack è infatti un crudele serial killer, perseguitato dall’idea di dover creare la più grande opera d’arte mai realizzata dall’uomo, utilizzando in modi sempre più deviati i corpi delle sue vittime. L’unico a interloquire con tale mostro per il pubblico è il dantesco Virgilio (Bruno Ganz), che deride i vani e devastanti tentativi di Jack di nascondersi dietro l’amore per la cultura e l’architettura.

Se Inland Empire si domanda come sopravvivere al proprio alter ego artistico, la risposta che Von Trier offre negli ultimi minuti del film è terribilmente semplice: uccidilo. Il regista denuncia il sé stesso passato nella figura di Jack, desideroso di una rinascita mentre quest’ultimo precipita finalmente negli inferi.
Hit the road Jack, and don’t you come back no more”.


NAKED LUNCH (1991)
Forse solo un regista con l’immaginario sporco e disgustoso di David Cronenberg poteva dare vita al miglior adattamento possibile de “Il Pasto Nudo”, celebre opera di William S. Burroughs scritta sotto l’influenza di ogni possibile eccitante, calmante, scoppiante o esilarante.
Nella New York degli anni Cinquanta William Lee (Peter Weller) ignora le pressioni dei suoi amici scrittori a cimentarsi anche lui con i libri, preferendo una carriera da sterminatore e facendo sua l’idea di “sterminare ogni pensiero razionale”: paradossalmente sarà proprio l’uso dell’insetticida come droga a farlo ritornare sulla scrittura, comunicando nei suoi stati allucinatori con orridi alieni che gli riveleranno una congiura segreta su cui dovrà investigare, mentre fugge verso il Marocco dopo aver ucciso sua moglie in un incidente (Judy Davis).

Il lungometraggio, pur trattando anche tematiche come il mondo queer e l’abuso di sostanze, è forse quello che più si avvicina alla storia di crescita dell’artista. Egli dovrà sempre passare per mille sofferenze e ancor più sabotaggi, spesso autoinflitti, ma nessun imprevisto sarà mai fatale finché si reinventa, cambia prospettiva, arricchisce la sua dimensione: in una parola, rinascere, continuamente e perpetuamente, nella lotta senza sosta contro il deserto di idee che mai smette di provare ad attirarlo e rapirlo.